Era una donna adulta che spesso faceva anche la levatrice, incaricata dalla comunità in cui viveva di porre fine alla vita di moribondi la cui agonia stava durando troppo. Un compito che lei eseguiva con un rituale preciso; entrata nella camera dell’agonizzante, dopo aver chiesto di essere lasciata sola toglieva dai muri crocefissi e immagini sacre e poi con un cuscino, un piccolo martello o a mani nude procedeva all’ esecuzione del rituale che avrebbe posto fine alle sofferenze del moribondo.
Questa è l’”accabadora”, dallo spagnola acabàr che significa finire, portare a compimento, terminare. Una figura a metà tra la realtà e la leggenda intorno alla quale, dal nulla, si è acceso negli ultimi tempi un grande interesse.
Pier Giacomo Pala, direttore del Museo etnografico Galluras di Luras (Olbia Tempio) è un uomo molto fortunato perché dopo più di 10 anni di ricerca sul campo ha ritrovato intatto un “mazzoccu”, ossia il martelletto di legno con cui l’accabadora assestava al moribondo il colpo finale.
«Le donne che aiutavano a morire, sas feminas agabbadòras, erano anche quelle che aiutavano a vivere, cioè levatrici e ostetriche».
Nel 1993, cercando proprio intorno a uno stazzo dove una di queste levatrici abitava, sotto un muretto a secco in demolizione, ben nascosto in una nicchia, Pala trova il preziosissimo martelletto, che oggi è esposto in bella mostra al museo Galluras.
“… Quando l’agonia diventava troppo lunga e insopportabile e il ricorso al rito del giogo si era dimostrato vano, si iniziava s’ammentu. Era in un momento successivo a questa fase che, se lo si fosse ritenuto necessario, si mandava a chiamare sa femina accabbadòra. Ella raccomandava l’anima del malato a Dio, entrava nella stanza e diceva: “Dio ci sia”, rimaneva sola con il moribondo e lasciava la camera solo dopo il suo trapasso. Spesso capitava che fosse difficoltoso per il medico o per il sacerdote raggiungere il malato, perché i villaggi erano molto distanti l’uno dall’altro e le vie di comunicazione erano inesistenti, accadeva così che ci si arrangiasse ricorrendo a metodi non “ortodossi”. Uno di questi era l’accabbadura. Tale situazione di isolamento venne messa in evidenza in alcuni registri parrocchiali del XIX secolo in cui veniva lamentata la preoccupazione di non poter somministrare i sacramenti a coloro che, vivendo in zone remote, morissero improvvisamente. Spesso erano gli stessi familiari e parenti che non si curavano di avvisare a tempo debito il medico ed il sacerdote. Da quanto detto evincersi che in secoli più recenti la tanto temuta femina accabbadòra intervenisse unicamente quando il rituale del giogo o la rimozione di tutti gli oggetti sacri dal morente e dalla stanza non fossero risultati efficaci …”
“La cosa sorprendente che avvolge questa storica donna è il tacito assenso dimostrato nei confronti della sua opera. Pur sapendo della sua esistenza, nessuno ha mai preso dei provvedimenti nei suoi confronti. Da parte della Chiesa non c’è mai stata alcuna scomunica, da parte della giustizia mai nessuna denuncia né arresto e da parte del popolo un’accondiscendente silenzio quasi volto a tutelare cultura, tradizioni, necessità. A tutelare lei e loro stessi, insomma. In una terra così ricca di affascinanti misteri e tradizioni che profumano di ancestrali favole e magie è radicata una religiosità profondamente sincretica, capace di far convivere cristianesimo antico, spinte innovatrici e retaggi di antichissimi culti . Il fenomeno storico-sociale della femina accabbadora ne è la rappresentazione. Si tratta sicuramente di una donna ‘pratica’, esperta di magia, che raccomanda l’anima a Dio prima di operare; una sorta di sacerdotessa della morte, a cui la comunità si rivolgeva per guarire i mali con le sue formule magiche, per togliere il malocchio (convinzione ancora oggi molto radicata), per tutelarsi dagli influssi malvagi; in breve, per tutte quelle prestazioni per le quali, in tempi antichi, ci si rivolgeva agli oracoli. Ma questa donna, sapeva soprattutto far nascere e morire.
Viveva lontano dal paese, emarginata e povera, ma ciononostante era necessaria. In Sardegna, terra di ancestrali magie e leggende, dove regnano superstizioni ed antiche credenze, dove convivono religiosità, stregoneria ed antichissimi culti, fino alla metà del ‘900 era presente una donna che era in grado di dare la vita, prendersene cura e finirla: l’accabbadora. Il fatto che si trattasse di una donna, gli accenni agli uomini sono pochi e non documentati, evidenzia la capacità ed il ruolo sociale tipicamente femminile di occuparsi degli altri, di “prendersi cura”; prerogativa sempre esistita e tutt’ora attuale dell’assistenza infermieristica.
Accabadora. L’ultima volta (ultima volta documentata) risale a undici anni fa, marzo 2003, in un paese vicino a Bosa. L’hanno chiamata i familiari di un malato di cancro ormai in fase terminale.